ROMA – All’ombra del cupolone, un uomo piuttosto anziano in giacca e cravatta, a testa bassa, scrive e scrive su enormi faldoniappoggiati su un tavolino portatile. In silenzio, il volto interamente coperto da un cappello blu, seduto su una sedia di legno. Ogni pomeriggio e sera, da marzo 2010 ad oggi, è a Roma, a via delle Fornaci, accanto al sottopassaggio che porta a piazza San Pietro. È solito appendere, ai lati delle scale, decine di fogli scritti a mano, fotocopie di articoli di giornali e un grande cartellone centrale con tanti messaggi. Alcuni, più forti degli altri, sono in evidenza: “Barboni, clochard, homeless: l’esclusione sociale è pari alla condanna a morte”; “Essere clochard non è affatto una scelta”.Luigi Miggiani, 66 anni, è un clochard in giacca e cravatta. Nato a Napoli ma vissuto a Torino, ex progettista meccanico, ex titolare di due aziende ed ex consulente, dice di portare avanti questa sua protesta estrema “per dare voce alle tante persone senza dimora a cui lo Stato non riconosce diritti. La mia è una missione”. Il suo modello è don Luigi Di Liegro, il primo e storico direttore della Caritas di Roma morto quindici anni fa, che conobbe personalmente. Luigi si trova da tanto tempo in una situazione di emarginazione, a causa di complicate vicissitudini lavorative, familiari e personali. Da tre anni vive e dorme nella sua Alfa 164, parcheggiata sulla salita che porta al Gianicolo. Perfettamente vestito e curato, si fa la doccia dai vicini Missionari della Consolata e frequenta ogni tanto la mensa Caritas di via Marsala, alla stazione Termini. Dice di scrivere anche sulla rivista della Caritas “Clochard”.Una protesta ordinata e determinata.La sua è una protesta ordinata e determinata. Due volte a settimana si reca regolarmente in questura per chiedere l’autorizzazione. È colto, informato e parla con estrema cura. “Sto scrivendo un libro in cui racconto tutta la mia vita – spiega -. Sono già arrivato a 2.000 pagine”. Una vita lunga e complessa, difficile da sintetizzare, che comprende licenziamenti, mobbing, l’abbandono da parte di moglie e figli, ricoveri in presidi sanitari che Luigi accusa di “torture” – “sono stato 160 ore con polsi e caviglie legati in una stanza piccola e sporca alle pendici del Vesuvio” -, lotte contro gli usurai, minacce e persecuzioni. Non ha una pensione nonostante soffra di una cardiomiopatia ostruttiva e problemi vari. “Ho rifiutato quella d’invalidità perché volevano attribuirmi dei disturbi psichiatrici”, precisa. Una volta, nel 1998, causa uno sciopero della fame intrapreso sul marciapiedi di via delle Fornaci, Luigi si sentì male e chiamò il medico. Nessuno si presentò. Allora salì su un tavolino e si legò mani e piedi per protesta. “In un attimo arrivarono sette volanti della polizia – racconta -, nemmeno fossi stato un terrorista. Mi hanno preso con la forza e portato all’ospedale Santo Spirito. Avevo subìto diversi traumi al ginocchio ma non mi hanno curato. Invece mi hanno sottoposto a trattamenti forzati per ‘disturbo delirante acuto’”.La richiesta allo Stato: diritti per gli ultimi. Quando parla Luigi è un fiume in piena. Alterna ricordi dettagliati della sua vita a scene del quotidiano e citazioni varie. Descrive persone nella sua stessa situazione. “Non puoi immaginare quanti dottori, ingegneri, studiosi sono finiti in strada dopo aver perso il lavoro ed essere stati emarginati dalla società – dice -. Ho soccorso donne anziane in sedia a rotelle, sotto la pioggia battente. Nessuno le aiutava perché erano sporche e puzzavano. L’indifferenza ci uccide due volte”. Luigi, rispetto agli altri, si sente un privilegiato: “Io almeno posso dormire in macchina. Non la sposto mai dal parcheggio perché non ho i soldi per pagare il bollo e l’assicurazione”. Se la Caritas di Roma, come gli ha promesso l’attuale direttore don Enrico Feroci, gli regalerà una roulotte, ha già deciso che la cederà ad altri, più sfortunati di lui. “La carità va bene – afferma -. Ma non spetta alla Chiesa occuparsi di noi, spetta allo Stato. Lotto per il riconoscimento dei nostri diritti, sanciti dalla Costituzione. Dobbiamo essere considerati uguali agli altri. Porterò avanti questa battaglia a nome di tutti i clochard, degli ultimi della società, finché non vedrò riconosciuta la nostra dignità di esseri umani”.

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