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Dio e Darwin

Di Lorena Leonardi del Sir
 
RIMINI – “La scelta non è tra Darwin e Dio. L’incompatibilità tra creazione ed evoluzione è solo apparente”. Sono, queste, parole di William Carroll, docente di teologia e scienza al Blackfriars college di Oxford, intervenuto ieri, 22 agosto, nella quarta giornata del Meeting di Rimini, all’incontro su “Evoluzione biologica e natura dell’essere umano”.

Due causalità senza conflitto. Se, da una parte, prevale il “naturalismo totalizzante che ritiene la scienza sufficiente a spiegare tutto ciò che deve essere spiegato” e giunge “alla conclusione che non c’è bisogno di fare ricorso all’idea di un creatore”, dall’altra, ha affermato lo studioso, “è impossibile comprendere a pieno cosa sia l’essere umano senza ricorrere a biologia, filosofia e teologia combinate”, seppur senza confusioni di ruoli e invasioni di campo. Già in San Tommaso d’Aquino, ha proseguito Carroll, c’è la ricomposizione dell’apparente contraddizione tra fede e scienza, perché per l’aquinate “il funzionamento della causalità divina è radicalmente diverso dalla causalità esercitata dalle creature, sicché tra le due non c’è conflitto. Nessuna scoperta biologica – ha ribadito lo studioso – può negare che gli esseri umani siano stati creati”.

Una proprietà che ha solo l’uomo. Dire che “Dio è un progettista intelligente che riempie i buchi è un concetto impoverito, sia dal punto di vista della ragione che della fede. Dio – ha spiegato Carroll -è così trascendente da poter essere causa di tutto ciò che è senza compromettere l’efficacia causale delle creature”. Ma l’essere umano, l’ultimo fotogramma della storia, “da quando è stato capace di contemplare l’infinito?”, si è chiesto Ian Tattersall, paleontologo statunitense, individuando “il punto di rottura” nell’improvvisa “apparizione di una nuova e straordinaria capacità: l’elaborazione simbolica”. Che “significa linguaggio, una differenza fondamentale rispetto a tutti gli altri esseri viventi”, perché comprendiamo le entità astratte, “vediamo e percepiamo l’infinito”, e quindi “possiamo sentirci in rapporto con esso”.

Se il genoma non basta. Di natura umana e genetica si è parlato anche nel corso del convegno che presentava la mostra dedicata alla figura di Jerome Lejeune, scienziato scopritore della sindrome di Down e difensore dei diritti delle persone affette dalla malattia. “Lejeune ha testimoniato che le persone non vengono documentate dal genoma ma dal rapporto con l’infinito” – ha detto Marco Bregni, presidente dell’associazione “Medicina e persona” e moderatore dell’incontro. Sul rapporto tra scienza e fede si è soffermato Jean-Marie Le Méné, presidente della fondazione dedicata a Lejeune nel 1996, l’anno dopo la sua morte: “Fede e intelligenza sono due strade che portano alla stessa verità. Come mai allora oggi non sappiamo più cos’è l’uomo?”. La società, ha proseguito, “viene profondamente alterata dalla confusione tra bene e male. Il vero pericolo è nell’uomo, nello squilibrio sempre più preoccupante tra la potenza, continuamente più forte nel nostro contesto, e la saggezza, che invece va regredendo: nella corsa tra le due, la tecnoscienza spesso ha la meglio”.

La medicina al servizio della vita. Le Méné, partendo da alcuni fatti di cronaca, come la vicenda della bambina pakistana che rischia la pena di morte e quella del nuovo screening prenatale: “La vicenda della piccola pakistana ci commuove, però in Europa si fa di tutto perché questi bambini non nascano”, ha detto, “e con la notizia dello screening ematico nessun bambino sano morirà a causa dell’amniocentesi: ci viene quindi detto che uccidere un embrione sano è più grave che ucciderne uno che non lo è”, dal momento che già ora nel 95% dei casi i bambini down sottoposti a screening vengono abortiti. Dietro tutto questo, secondo l’esperto, c’è “un grosso business, che riguarda ogni donna, quindi metà della popolazione mondiale, e non riveste alcun nessuno interesse dal punto di vista medico. A che serve il medico, se i bambini affetti da trisomia, anziché essere meglio accolti, vengono uccisi?”.

“Siamo rapporto con Chi ci ha voluto”. Il presidente Le Méné ha poi parlato dell’impegno della Fondazione nella “difesa della vita che è inseparabile dalla medicina e dalla ricerca. Noi lavoriamo non sul genoma ma sulle connessioni cerebrali, in un’ottica di terapia, cerchiamo di migliorare la vita dei nostri malati. Eliminare la popolazione malata è forse una soluzione compatibile con l’approccio scientifico?”. Per Carlo Soave, docente di Fisiologia vegetale all’università di Milano, e curatore della mostra su Lejeune, la vita stessa del genetista “è una risposta alla domanda ‘cosa è l’uomo’. Lejeune – ha spiegato – era incredibilmente ottimista. D’altra parte, se un medico non nutre la speranza di fare qualcosa di buono, allora è meglio che cambi professione. Già esserci è un fine, perché siamo immagine del nostro creatore. Noi non siamo genetica, ma rapporto con Chi ci ha voluto”.