Di Nicola Rosetti

VATICANO – Nel corso della storia della Chiesa sono stati numerosissimi i movimenti che si sono staccati man mano da quella comunità di credenti fondata da Gesù ed è stata premura dei  Pontefici ricucire gli strappi per ricomporre uno dei beni più preziosi della chiesa stessa: l’unità. Questo desiderio di mantenere unita la Chiesa come Cristo l’ha inizialmente voluta, prende il nome di ecumenismo dal greco oikouméne che indica tutta la terra abitata. 

L’ecumenismo cattolico nasce dalla certezza che la Chiesa cattolica è la prosecuzione nel tempo della Chiesa fondata da Gesù sugli apostoli e guidata dal Papa, successore dell’apostolo Pietro: nessuna altra comunità cristiana può vantare un così stretto legame storico con la figura di Gesù e degli apostoli ed è per questo che diciamo che la Chiesa oltre ad essere “una” è anche “apostolica”

Agli inizi del ‘900 nei paesi del centro europa, dove vivevano e vivono tutt’ora comunità protestanti e calviniste non in comunione con la Chiesa cattolica, ebbe inizio una nuova forma di ecumenismo, di matrice protestante appunto, volta a cercare una unità nella pluralità. Nel 1948 queste forze si riunirono dando vita al “Consiglio Ecumenico delle Chiese”.

Queste due visioni molto diverse fra loro hanno avuto modo di incontrarsi e confrontarsi grazie all’evento storico-religioso più importante del XX secolo: il Concilio Ecumenico Vaticano II. In vista dell’assise conciliare e al fine di distendere i rapporti con le altre comunità cristiane, Papa Giovanni XXIII istituì il “Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani” presieduto dal Cardinale gesuita Agostino Bea, insigne biblista e grande promotore dell’unità dei cristiani. Il Papa volle anche che fossero presenti, in qualità di osservatori, alcuni membri delle comunità ortodosse e protestanti. L’istituzione del Segretariato e la presenza di cristiani non cattolici impose all’episcopato cattolico una riflessione e una maggiore attenzione verso queste realtà che si esplicitarono nel decreto conciliare “Unitatis redintegratio”. Questo decreto è la “magna carta” dell’ecumenismo cattolico e ha tracciato il sentiero da percorrere negli anni successivi.
Molti i punti chiave del documento:
1) si riafferma che la vera chiesa di Cristo è stata fondata sugli apostoli e continua a vivere nei loro successori;
2) quelli che sono e sono stati istruiti nella fede di Cristo in tali comunità non cattoliche, non possono essere accusati di peccato di separazione;
3) coloro infatti che credono in Cristo ed hanno ricevuto validamente il battesimo, sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica;
4) i fratelli separati compiono validamente diversi riti sacri che producono effettivamente nei credenti la grazia che significano pur non essendo loro spalancato l’intero tesoro della Chiesa.

Tutto il decreto conciliare è un sapiente intreccio tra la coscienza di essere la vera Chiesa di Cristo e il desiderio di vicinanza e apertura verso i fratelli separati. Questo equilibrio, pienamente conforme alla visione cattolica del mondo e della vita, non è stato pienamente rispettato nel post-concilio: alcuni ambienti hanno continuato a guardare con diffidenza le comunità non cattoliche accentuando in modo eccessivo la convinzione di appartenere alla vera chiesa; altri ambienti, al contrario, si sono sbilanciati verso un’esaltazione dei fratelli separati annacquando la propria fede cattolica. È solo con questa premessa che si riesce a capire la visione ecumenica di Benedetto XVI improntata a quella che il Pontefice ha chiamato l’ermeneutica della continuità del Concilio.

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